
Due arie
Stanze per la flagellazione
Due arie su testi di Giovanni Testori da Per sempre (1970), per controtenore e clavicembalo
Stanze per la Flagellazione, su testo di Giovanni Testori, da Dies Illa (1968), per due controtenori e clavicembalo
Gianluigi Ghiringhelli e Angelo Galeano controtenori
Rita Peiretti clavicembalo
Le poesie di Giovanni Testori hanno una forte ispirazione musicale; furono spesso intonate, ad esempio da Leo Ferré, Fiorenzo Carpi e Elide Suligoj. Ad esempio l’ispirazione è operistica, verdiana, nei versi del Macbetto, scritti «secondo i ritmi del libretto di Piave», spiega l’autore (Giovanni Testori, Opere 1965-1977, Bompiani, Milano 2003, 1a ed. 1997, p. 1539).
Le arie scritte per Angelo Galeano e Rita Peiretti («Viene la sera» e «Forse dovrò buttarmi ancora») hanno quindi una forte componente operistica: «Forse dovrò buttarmi ancora» è un’aria barocca col “da capo”, «Viene la sera» è un’aria doppia, con variazioni tipiche del Belcanto. I testi, brevissimi, sono tratti dalle raccolte dedicate all’amato Alain, Per sempre.
La stessa ispirazione operistica si trova nel ciclo Stanze per la Flagellazione di San Domenico Maggiore, un poemetto in quattro sezioni (le centrali sono rovesciate nell’intonazione musicale) che Testori ha scritto nel 1966-7, dedicandole allo storico dell’arte Roberto Longhi, che lo scrittore riconosceva come suo maestro. Il poemetto traduce la visione del dipinto di Caravaggio che oggi si trova al Museo di Capodimonte. Il tema di fondo, oltre alla potente figuralità, è quello del corpo maschile. I toni barocchi e densi di immagini dei versi si ritrovano in una parte vocale effervescente di colorature, ma anche ipnotica e a tratti spettrale.
Due arie – Giovanni Testori
Stanze per la Flagellazione di San Domenico Maggiore – Giovanni Testori (1966-67)
1.
Suda il ventre,
il pelo s’irrita
del sesso sacro
sotto il lino;
striscia sull’inguine
la testa negra,
iperbolica,
assassina.
Intriso di pesce e pane
D’angiporto
Grondi di fame.
L’osteria sul molo
Ti reclama dal bicchiere;
l’urla del vino denso,
duro;
l’orma del labbro è restata,
sudicia perla,
sul profilo.
Incompiuta
La Cena si compie ora qui,
nell’addosso scatenato
dei mangiatori di te
alla colonna svergognata.
Resisti
Torcendo l’enfasi di figlio
Nella curva tenera ed enorme
Dell’addome;
gonfi l’ombelico;
assorbi nell’inguine
l’ordine dei re,
l’ingiuria degli amati.
2.
Toro imprigionato,
ghianda offesa,
avvinazzata:
“figlio – grida – figlio!”
Il verme della madre.
Carne che grondi
nel silenzio di Sodoma,
catrame,
ombra di là dal telo,
carne contro carne,
s’avventano i segugi,
i ani di te,
nella tua lingua;
il frenulo strappano dai denti.
Malinconico dio,
pena affidata ai mostri
e agli innocenti,
la sera si stringe
alle chiusure dei tuoi giunti;
ti lecca, per fame,
lo smalto lurido dei denti.
3.
Striscia
il polipo salmastro.
L’agonia delle labbra
disfa dita e viole
sui calcagni
dell’apollo defraudato.
Cristo,
luce di rosa,
umida cantina,
ucciso sarai,
marcio d’amori fratricidi,
abbattuto sul porto
nell’incendio inumano delle navi.
4.
Sale la sera
gemendo dalla riva;
stende sul tuo ventre
l’ultima umana seduzione.
Ti chiamerà un giorno
il bipede inclemente,
bocca che asciugherà invano
sul petto sacro
la rosa coagulata
del tuo sangue
-crosta,
screpolio –
e non avrà che ombra,
vanità,
dannazione,
niente.
